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Furwell to Wilfred



Dover dare l'addio a Robin Williams e a Wilfred nella stessa settimana è troppo per qualsiasi essere umano ma questa estate ci ha già dimostrato di non essere caratterizzata da una particolare umanità e tant'è. Dopo quattro stagioni il capolavoro di Zuckerman e Gann trasmesso da FX giunge al termine, per un bel po' ho pensato che Wilfred trattasse di un mistero da risolvere, che una qualche logica si sarebbe rivelata ma così non è stato e sappiamo che non c'è frustrazione più grande di una serie tv che non svela i misteri che ha generato, avendo seguito Lost ero preparata anche a questo.
Wilfred è un capolavoro di scorrettezza e basso umorismo, non è per tutti e questa probabilmente è la ragione per cui nessun canale italiano si è preso la briga di trasmetterlo. Ma come Wilfred non è solo un cane allo stesso modo la serie opera su più livelli, ma questo lo si capisce solo dopo aver smesso di ridere.
Non mi capita spesso di riflettere sul significato di una serie tv, ma con Wilfred è stato inevitabile, il tema della sanità mentale è stato il filo conduttore che in questi quattro anni ha accompagnato le vicende di Ryan (sì, è Frodo), continuamente saltellante sul confine tra pazzia e normalità. Ci sono temi delicati come la depressione, le pressioni della società o il disagio mentale che sono affrontati con irriverenza ma che non per questo scadono nel semplicismo o nel patetico e ci va tanta delicatezza e intelligenza per riuscirci. 
Ognuno di noi è affetto da bizzarrie più o meno grandi e più o meno evidenti e ognuno di noi è schiavo dei giudizi della società, far convivere questi due aspetti è la chiave per raggiungere la felicità. Non c'è melodramma solo tanta erba, tanto sesso con pupazzi e nessun rispetto.

Desidero ardentemente Bear e tra poco è il mio compleanno, sapevatelo.



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